L’origine dell’AIDS pare risalga ai primi del XX secolo, quando la mutazione di un retrovirus – probabilmente della scimmia – si trasmise alla popolazione dell’Africa Subsahariana.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha calcolato che dalla scoperta della sindrome ci siano stati circa 25 milioni di morti. È evidente, dunque, che l’AIDS non sia solo un problema medico, bensì, come qualunque malattia o epidemia di grande portata, anche un problema politico da affrontare in modo congiunto tra gli stati del pianeta.
Il Programma delle Nazioni Unite per l’AIDS (UNAIDS) ha l’obiettivo di creare un accesso universale alla prevenzione, al trattamento, alla cura ed al supporto dell’HIV. L’azione di questo programma comporta la stretta collaborazione con l’Unicef, l’Oms, l’Ufficio per l’Alto Commissariato sui Rifugiati, la Banca Mondiale, l’UNODC (l’Ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e la criminalità) ed altre agenzie ed organizzazioni internazionali, ciascuna delle quali si occupa di un settore specifico, con intervento capillare nelle singole regioni.
All’inizio di quest’anno è stata approvata la strategia 2011-2015 denominata “Getting to zero” (avvicinarsi a zero): zero nuove infezioni, zero morti legate all’AIDS, zero discriminazioni; ciò cercando di migliorare la risposta dei singoli paesi affinché siano garantiti l’accesso alle cure, ai trattamenti ed alla prevenzione. L’efficacia delle politiche mondiali nella lotta all’HIV, tuttavia, dipende dalla capacità dei governi di definire ed attuare le regole comuni: gli stati hanno dimostrato molto spesso di essere impotenti, rendendo deboli le norme giuridiche internazionali. Grande difficoltà di applicazione delle politiche è collegata, inoltre, alla necessità di ottenere enormi finanziamenti; solo una forte volontà politica comune sarebbe in grado, dunque, di compiere passi importanti verso la soluzione del problema, e la tendenza degli ultimi dieci anni sembrerebbe essere più che positiva in tal senso.
Malgrado fino a questo momento siano stati raggiunti risultati importanti ma non decisivi, uno spiraglio significativo è emerso da uno studio condotto dall’aprile 2005 ad oggi, i cui risultati sono stati pubblicati su “The Economist” e su “Science” la scorsa settimana: il trattamento precoce con antiretrovirali ridurrebbe del 96% il rischio di contagio del partner. Ciò comporta che la cura degli infetti con i farmaci sia efficace anche per bloccare il contagio; insomma, un risultato doppio con un’unica soluzione.
L’evidenza dei risultati ha indotto gli studiosi a interrompere l’esperimento (organizzato dall’ “Hiv prevention trials network” e finanziato dagli Istituti nazionali di sanità statunitensi) con quattro anni di anticipo rispetto al termine previsto (2015). Esso ha riguardato 1763 coppie (delle quali circa 50 omosessuali) provenienti da più regioni del pianeta ed istruite nell’evitare il contagio. La prima metà è stata curata con i metodi tradizionali (il partner sieropositivo viene sottoposto a trattamento farmacologico solo se la sua condizione raggiunge un certo limite critico o mostra i sintomi dell’AIDS), mentre l’altra metà con un trattamento farmacologico costante: in sei anni, del primo gruppo 27 soggetti hanno trasmesso il virus al partner, mentre dell’altro solo 1.
Numeri che sembrerebbero davvero eclatanti e che aprirebbero le porte ad una nuova era nella lotta all’Hiv. Purtroppo, però, sono dati calcolati in situazioni di perfetta prevenzione e con la possibilità di cure. Finché prevenzione e cure non saranno rese fruibili a tutti i soggetti del pianeta, il contrasto all’Immunodeficienza Acquisita resta un problema globale e prioritario, la cui soluzione comporta un percorso ancora molto lungo.