La confessione di un pentito si fa monologo in teatro. Mi chiamo Antonino Calderone è la trascrizione drammaturgica che la scrittrice Dacia Maraini ha tratto dal libro-documento Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi, uno dei massimi esperti mondiali del fenomeno mafia.
Protagonista e regista di se stesso è Pino Caruso, autentico beniamino del pubblico. La coproduzione dei Teatri Stabili di Catania e Palermo, in scena alla sala Musco di Catania dal 20 al 28 aprile, testimonia della grande attenzione di due teatri siciliani di eccellenza verso le varie forme di letteratura e drammaturgia che scavano nelle pieghe di un’emergenza endemica, tanto aberrante quanto radicata. Un impegno civile a denunciare e contrastare il degrado che incombe sulla Storia e sulle storie isolane, stritolate dall’inestricabile morsa della “piovra”.
Quella di Calderone è in particolare una vicenda tutta catanese, infarcita di riti e luoghi fin troppo noti ai cittadini etnei. Un assassino può suscitare simpatia? A volte sì, se assistiamo alla sua trasformazione, se seguiamo da vicino il travaglio che lo abita e lo riempie di dolore. Quest’uomo è Antonino Calderone, mafioso appartenente alla “famiglia” catanese, sopraffatto dalla violenza e dalla rapacità dei corleonesi che, a furia di brutalità cieca e delitti spietati, hanno preso in mano la criminalità organizzata siciliana.
Calderone ha raccontato la sua vita a Pino Arlacchi che ne ha fatto un libro. E Dacia Maraini ha raccontato a sua volta, in forma teatrale, la storia di un uomo dalla vita avventurosa e difficile, inseguito dalla vendetta. Perché – come diceva Voltaire prendendo in prestito una massima di Erasmo – ogni buon racconto è come un uovo che, covato, genera altri racconti, all’infinito.
Un uomo mite, Calderone, non portato per carattere ai delitti, ma pur trascinato dalla storia familiare e dall’intimità col fratello, mafioso di rango, a pungersi il dito e accendere col fiammifero la famosa immaginetta della Madonna, costretto a fare sue le regole dell’omertà e del terrore, fino al punto da partecipare all’uccisione di tre bambini che avevano assistito senza saperlo all’assassinio di un “ribelle”. Forse sono proprio quei bambini a fare nascere un barlume di indignazione in un cuore incallito. Fatto sta che da quel momento comincia a tenersi da parte, a chiudersi in casa, a rifiutare la partecipazione attiva alle imprese della mafia. E infine, dopo l’omicidio del fratello, deciderà di fuggire all’estero, dove comunque non avrà pace, fra i sospetti della polizia internazionale, le vecchie denuncie che tornano attive, la vendetta dei corleonesi che continua a gravare sulla sua testa.
«Il racconto che ci fa il mafioso pentito – spiega Dacia Maraini – certo pecca di reticenze, di deformazioni, di aggiustamenti di punti di vista. Ma il fondo è sincero e lo si capisce dal tono delle verità che racconta. Calderone, palesemente semplice nella sua implicita complicazione, ci rivela pian piano se stesso, le ombre che premono sulla sua coscienza. La cosa sorprendente è che tutto, alla fine, contribuisce alla formazione di un giudizio obiettivo sulla mafia. E il giudizio personale, intimo, non può non trasformarsi in una larvale ma schietta consapevolezza culturale».
La stessa coscienza che potrebbe rendere libero il popolo italiano, ancora troppo prigioniero della filosofia del “tanto non cambierà mai niente”.