L’azione che ha portato all’1-0 di Xavi mi ricorda tanto il 2-1 di Umberto Del Core all’AlbinoLeffe, a quel tocchetto di sinistro che ci mandò in Serie A. Un passaggio scavalca la difesa, il difensore perde il tempo per prender palla, il marcatore piazzato davanti al portiere al centro dell’area lo beffa sparacchiando alla meno peggio.
Xavier Hernández Creus non può esser paragonato all’aletta barese: anche nel gollonzo segnato il regista catalano fa vedere tutta la sua classe, sistemandosi con il tacco sinistro il pallone giallino lisciato da Marcelo, rallentando bruscamente la corsa per non lasciare il tempo a Casillas di prendere il suo delicato pallonetto di destro. Le magliette a strisce rosse e azzurre del Catania richiamano però quelle blau i grana del Barcelona e la mia sciarpa è facilmente confusa per una della squadra catalana, malgrado i nostri colori siano più brillanti.

Sono alla Peña la Perla, tempio gaditano del flamenco, attorniato da spagnoli e stranieri vari accorsi per il megaschermo che trasmette El Clásico, l’evento più atteso dagli sportivi spagnoli. La maggior parte dei presenti è madridista, con tanto di cori e magliette, mentre noi culés siamo pochi. Al Camp Nou giocano Barcelona e Real Madrid, due squadre che fanno tremare solo sentendone il nome. Sono cresciuto con il mito del Real di Roberto Carlos e Luis Figo, una squadra che faceva tremare il mondo solo a sentirne il nome, spesso usato per designare i vincenti per antonomasia. I galacticos erano la squadra dal gioco perfetto, anche se ogni tanto non tutto andava bene, né nella Liga né in Europa. Con l’avvento della generazione dei campioni della Spagna, però, è il Barcelona che è diventato un esempio di grande squadra.
Gli 11 titolari sono quasi tutti elementi iberici, molti cresciuti nelle giovanili del club catalano, la maggior parte convocati regolarmente con la Selección campione del mondo e d’Europa. Lionel Messi è considerato la migliore promessa del calcio mondiale, Xavi il candidato perfetto per il pallone d’oro, Villa l’attaccante del futuro. A proposito di quest’ultimo, tutta la sera fa strabuzzare gli occhi ai presenti: danza con il pallone sulla fascia, salta i birilli in maglia bianca, arriva in un respiro fino alla porta. Riesce di tutto a questo centravanti che gioca sulla fascia, usufruendo di uno schema da calcio totale in cui chiunque è protagonista.
Una partita da 70-30% di possesso palla, in cui si gioca di prima, veloce, semplice e leggero. Con tre passaggi il Barça è in porta, mentre il Madrid dopo tre passaggi deve riconsegnare il pallone agli instancabili Busquets o Puyol. Invincibile è chi mette in campo una squadra che non si fa minimamente innervosire dagli interventi rudi (da squadretta provinciale che lotta per la salvezza) di Carvalho o Ramos. Messi vola a terra e puntualmente riprende a correre. Ronaldo invece si lamenta e spinge anche Guardiola, risultando comunque l’unico attivo dei suoi. E intanto, alla Peña, si levano cori da mondiale 2006 (compreso il tema dei White Stripes tanto caro a noi italiani), si alzano mani con le cinque dita aperte, i supporter in maglia bianca sfollano prima del gol di Jefferson.
E poi, il 5-0 del Barcelona al Madrid è anche la vittoria di Pep Guardiola su José Mourinho, del tecnico fatto in casa, umile campione che chiude da vecchia gloria nel Brescia, contro il numero uno, vincente ma presuntuoso e soprattutto sempre convinto d’essere il migliore. Guardiola non sbaglia una mossa, Mourinho rimane impietrito e limita la risposta alla sostituzione di Özil (controfigura del giocatore del mondiale). Alla Peña, a partita finita, tutti gli stranieri sorridono. «El mejor partido que he visto en los últimos años» dicono in molti…