L'ascesa della Virtus: Carmelo Carbone

DiRoberto Quartarone

Apr 9, 2008

Oggi è tra i dirigenti catanesi più attivi ed esperti, ma Carmelo Carbone ha avuto anche un passato da giocatore delle quattro principali squadre catanesi degli anni sessanta-settanta. «Ho giocato con la Grifone, con il Gad Etna, con lo Sport Club e con il Cus.» Ha avuto la fortuna di passare dalle cure di tutti i più importanti tecnici che hanno operato a Catania in quel periodo, da Penzo a Trovato, da Puglisi a Di Maria.

DIRETTORE SPORTIVO. Carmelo Carbone, 59 anni, oggi è il direttore sportivo della Grifone [Basket Catanese].

«È stato con Amerigo Penzo che ho iniziato a giocare, spinto dal mio compagno di classe Giuseppe Mineo. Insieme siamo entrati alla Grifone nel 1963; eravamo i giovani aggregati alla prima squadra. Quando la società è stata assorbita dal Gad Etna, ci siamo uniti ai giocatori dell’altra società. In squadra c’erano tra gli altri Puccio Corona, il giornalista della Rai, Gangemi, detto “Alivu”, Bertocco, un lungo di Siracusa, Ruggiero, un militare elicotterista che ha fatto anche l’arbitro in Serie A, e molti altri. Ci allenava Totò Trovato

Quando è finita la sua esperienza con il Gad?
«Nel 1968, quando mi sono trasferito allo Sport Club di Santi Puglisi. Era il primo anno di Serie D e abbiamo ottenuto una facile salvezza, con l’innesto di vari giovani. Penso che quella sia stata la mia migliore stagione, perché avevo finito le giovanili e la mia nuova squadra disputava un campionato importante. Dopo un anno di assestamento, abbiamo vinto il campionato e siamo stati promossi in C. Io però sono passato al Cus, che in seguito sarebbe diventato Leonardo da Vinci, con Giovanni Di Maria in panchina. Ho chiuso in Promozione con il San Giovanni la Punta.»

Quali erano i suoi pregi e i suoi difetti da giocatore?
«Il punto forte era la tecnica e mettere in condizione gli altri di segnare; avevo anche un buon tiro. Il punto debole era il fisico che non era un gran che

Il più grande allenatore che ha avuto?
«Totò Trovato, che penso sia stato uno dei personaggi più importanti per il basket a Catania, anche come dirigente; con lui ho affinato le mie qualità tecniche. I risultati più importanti li ho ottenuti comunque con Santi Puglisi, vincendo un campionato di serie D. Lui faceva volare la squadra, era un bravissimo preparatore atletico e riusciva anche a motivare molti giovani come Cosentino, Borzì, Famoso, Strazzeri, i Vitale e molti altri… Altrettanti giocatori sono usciti da Trovato, come Spanò, Mineo, Torrisi, Di Salvo, Marino…»

Chi è stato il miglior giocatore catanese?
«Almeno fino agli anni ottanta, penso che Diomede Tortora sia stato il miglior giocatore, oserei dire di tutta la Sicilia. Se fosse andato fuori sarebbe giunto sicuramente in serie superiori. Era un giocatore eclettico: ha iniziato da lungo e ha finito da play, era forte sia in attacco che al tiro (con l’aiuto del tabellone segnava sempre). E ha giocato per parecchio tempo. Il giocatore migliore che abbiamo avuto a Catania è stato comunque Angelo De Stasio, che ha avuto la fortuna di giocare in Serie A alcuni anni dopo il mio ritiro. Ai suoi tempi, il Gad Etna giocava in Serie C, che equivale ad una B2 odierna, e quasi tutti i giocatori erano catanesi, tranne qualcuno che veniva soprattutto da Ragusa e Siracusa. Il nucleo comunque era sempre locale.»

Quali sono stati i suoi avversari più forti?
«Nanè Lo Presti, che nel primo campionato allievi contro la Virtus Ragusa ci fece perdere la partita che valeva la finale regionale all’ultimo secondo. Poi l’ho avuto come compagno di squadra. Mi faceva dannare l’anima Miceli, che giocava nel Messina come playmaker e aveva delle gambe eccezionali. Un altro grande è stato Beppe Vento, di Trapani.»

PRIMO SUCCESSO. Lo Sport Club 1970-1971, che venne promosso in Serie C con Santi Puglisi in panchina [La Sicilia].

Ha mai allenato?
«Sì, dopo il ritiro per un biennio lo Schweitzer di Michele ed Eugenio Pascucci, due arbitri. Tra gli altri atleti, avevo anche “Touche” Maugeri che ha poi giocato anche con Gad Etna e Milazzo.»

Quali sono le partite che ricorda con più emozione?
«Intanto, l’esordio in Serie D contro il Mosaici: abbiamo perso di due punti, ma ho giocato abbastanza bene, è stata molto combattuta (mi ricordo anche una rissa finale); mi è rimasta impressa. Un’altra contro l’Edera Trapani, l’anno della promozione con lo Sport Club, dovevamo limitare Beppe Vento e ci siamo riusciti, vincendo. Aggiungo anche dei dettagli ad un aneddoto che ha già raccontato Gianni Di Maria: per Leonardo da Vinci-Giarre ci buttarono cartoni, acqua, latte, ortaggi vari per non farci giocare la finale a tre contro loro e Santa Maria di Licodia. Pensavano di aver subito dei torti nella partita contro il Licodia, quindi non volevano farci giocare. Vincemmo comunque a tavolino e anche contro gli altri avversari, in una partita strana.»

Quando si è avvicinato alla nuova Grifone?
«Dopo l’esperienza con lo Schweitzer, mi sono allontanato e sono rientrato nel 1994, quando Enzo Molino ha proposto a me e ad altri vecchietti, tra cui Spanò, Galatà, Parrinello e Tortora, di giocare in Serie D. Era un campionato interessante, con avversarie del calibro di Vittoria e Pozzallo, malgrado fosse di livello più basso rispetto a quand’ero più giovane. La società aveva ancora pochi ragazzi a livello giovanile, ma presto arrivò Riccardo Cantone, con cui abbiamo iniziato un progetto importante. In due anni abbiamo fatto crescere atleti del calibro di Emanuele Diana, Gianfranco Galatà, Ettore Gissara. Il progetto mirava a portare la Grifone in Serie C1 e la base sono state le vittorie a livello giovanile. Poi Cantone è stato chiamato da Caltanissetta e si sono succeduti vari tecnici, tra cui Balbo, Morelli, Zacevic…»

La partenza di Cantone ha condizionato il progetto?
«Certo. La Grifone aveva cominciato proprio cercando l’allenatore e aveva preso uno tra i più capaci sulla piazza. Avevamo un’ottima squadra e molti tutt’ora giocano a buon livello.»

Allora quand’è finito il progetto?
«In realtà non è finito. Anzi, la squadra ha avuto per un periodo come vertice il Cus, perché la squadra universitaria aveva bisogno di una società esterna per affrontare la B2. Si impegnarono Molino e il presidente Di Maita, ma ci furono molte difficoltà. Nel momento in cui iniziarono a perdere soldi di tasca propria, a causa degli stipendi ai giocatori e ad altre spese, si dovettero ritirare. Le casse si erano svuotate, mantenere atleti quali Giuffrida, Ceper, Rugolo e Grasso fu una spesa eccessiva. Il progetto giovanile continuò, ad esempio Marco Consoli e Massimiliano Porto sono cresciuti in quel periodo; in realtà, gli obiettivi furono cambiati in corso d’opera. Si sarebbe potuta raggiungere tranquillamente la Serie C1.»

VECCHIETTI. Carmelo Carbone con la Grifone 1994-95, una squadra di “vecchietti” [C.Carbone].

Come si è arrivati alla Grifone odierna?
«Questa era una società satellite della Virtus e sarebbe stata venduta se io e Vergani non l’avessimo iscritta. Il buon Nino Vergani è stato il segretario storico della squadra, mentre io negli ultimi anni sono stato prima responsabile del settore giovanile, poi il team manager in Serie B2. Far scomparire la Grifone sarebbe stata una pugnalata, quindi con Vergani ci siamo rimboccati le maniche e ora siamo orgogliosi che alcuni ragazzi abbiano deciso di rimanere con noi: Catotti, Marletta, Marzo e Consoli danno l’anima nelle partite e continuano a gratificarci. Per il futuro abbiamo Orazio Livera, un ‘90 interessante, che stiamo mettendo in prima squadra. Bisogna stare attenti però a non bruciare i più giovani.»

Cosa ha spinto i giocatori a rimanere a Catania?
«Hanno deciso loro di rimanere. Alcuni erano ancora vincolati alla Virtus, che oggi fa solo un campionato under-21, altri come Consoli e Marzo no, ma hanno preferito fare da traino qui per i più giovani. Se li chiameranno da una serie superiore, li lasceremo andare.»

Come giudica il quadriennio della Virtus?
«È stato un periodo d’oro per Catania, perché finalmente abbiamo visto giocatori di una certa importanza come Cattani, Babetto, Maran e Gottini, che hanno contribuito a far crescere i nostri giovani. Abbiamo visto del buon basket e abbiamo raccolto qualche frutto. L’ultima salvezza, poi, è stata merito dei giovani, come Consoli, Marletta, Catotti, i fratelli Saccà: li avevamo presi giovanissimi e vederli giocare in un campionato così importante mi ha inorgoglito, perché ha dimostrato che il mio lavoro è servito a qualcosa. Questa esperienza dimostra che ai ragazzi non basta il talento: bisogna anche che abbiano la mentalità dell’essere giocatori, perché senza abnegazione, sacrificio e costanza è sempre difficile ottenere dei risultati. Oggi alcuni di loro giocano ad alto livello, altri si stanno ben comportando. Queste sono le soddisfazioni di un dirigente! Per quanto riguarda i tecnici, il professore Anselmo ha lavorato bene, aveva dato tanta fiducia ai ragazzi, e Morelli ha completato una salvezza per cui nessuno avrebbe scommesso un euro, per di più con 7 giocatori catanesi su 10, gestendo la squadra in maniera impareggiabile. Ricordo con grande soddisfazione l’ultima partita vinta contro San Severo, allenata da Walter Magnifico, che ha fatto la nazionale: ci avevano dati per spacciati, eppure ci siamo salvati. È stato un peccato aver ceduto il titolo, ma purtroppo è andata a finire così.»

Si poteva evitare?
«No, dal punto di vista economico la situazione era pesante. Si poteva evitare se ci fosse stato l’intervento di altre società o di altri imprenditori che avessero preso a cuore le sorti della squadra. È stato un peccato perché qualcosa avevamo costruito: era la prima volta che Catania poteva contare su sette catanesi nel roster a quel livello e poi molti altri crescevano con la Grifone….»

E il cambio tecnico era necessario?
«Non fu un cambio tecnico, non c’era niente da dire sul gioco della squadra, ma Francesco Anselmo non andava d’accordo con la dirigenza e a causa di questi contrasti andò via. Nessuno ebbe il buon senso di mettere da parte gli asti. Tutto sommato, considerando la salvezza, non andò male.»

In Serie B2, i giocatori prendevano rimborsi spese o stipendi?
«Si spendevano somme importanti, soprattutto il primo anno, che andavano oltre il rimborso spese. In B2 si andava verso il professionismo e la maggior parte degli atleti giocava per lavoro. C’erano giocatori come Cattani, Bianchini, Babetto e Maran, che hanno una storia importante alle spalle. C’è bisogno di partire dai giovani, soprattutto da quelli locali; per questo il ruolo di Pippo Rossi era fondamentalmente perché creava un vivaio direttamente dalle scuole. La Virtus era arrivata ad avere tanti giocatori locali anche grazie al lavoro di Zacevic, Morelli e Strazzeri. Oggi, malgrado ci siano molte più distrazioni, tanti tecnici riescono a catturare lo stesso i ragazzi.»

Come si fa a farli diventare dei grandi giocatori?
«Convincendoli che si devono allenare, aspettando il proprio turno. In una squadra deve esserci disciplina, in campo e fuori. L’allenatore deve essere aiutato da una dirigenza forte, con tutte le componenti che lavorano, soprattutto il viceallenatore e il team manager, che devono supportarlo. Molti hanno talento ma non sono riusciti ad arrivare in alto perché non hanno questa mentalità. Altri ragazzi invece con meno talento hanno fatto tanto perché, con disciplina, sacrificio e lavoro, sono migliorati e si sono ritagliati uno spazio. Ricordo che Riccardo Cantone seguiva questa linea con la sua professionalità e la sua mentalità. Seguiva i ragazzi dentro e fuori dal campo, pretendeva anche che portassero la pagella e loro si sentivano importanti e motivati. Tutto questo è compito nostro, perché siamo anche degli educatori.»

Qual era il suo ruolo alla Virtus?
«Ero team manager. Si tratta di un ruolo importante, perché bisogna fare da collegamento tra la squadra, la dirigenza e i ragazzi. Tieni il polso della situazione: fai un po’ il confessore, parli con i ragazzi, vedi i loro bisogni, se trovi degli allenatori con cui poter dialogare riesci ad instaurare una discussione sia dal punto di vista tecnico che da quello morale, per risolvere i problemi. Sono stato fortunato perché ho avuto un dialogo sereno con Genovese, che mi ascoltava ma, ovviamente, prendeva in autonomia le sue decisioni. Così è stato anche con Anselmo e Morelli.»

I suoi successi da team manager?
«Ricordo che Marco Consoli nei primi anni di B giocava poco e l’ho rincuorato, per tenerlo sempre sulla corda. All’inizio c’erano Cattani e Bianchini davanti a lui: era difficile trovare spazio, ma era messo nel roster. I giovani mordono il freno, ma in quei momenti si rivela la bravura del team manager, che deve riuscire a gestire le piccole crisi personali per dimostrare che la società è vicina ad ogni atleta. Secondo me, l’importante è l’armonia nello spogliatoio

PERIODO D’ORO. La Virtus Catania 2004-2005, di cui Carbone era responsabile delle giovanili; si riconoscono fra gli altri Sortino, A.Saccà, Marletta e Consoli, protagonisti della salvezza nel 2006-2007 [VirtusCatania.com].

Cosa ne pensa del panorama attuale?
«È triste ma inevitabile. Avendo perso la squadra leader, che rappresentava Catania ad un certo livello, bisogna riorganizzarsi ed è difficile farlo subito. Secondo me tutte le società cittadine che tengono a questo sport dovrebbero sedersi attorno ad un tavolo, sforzandosi di far nascere un’altra squadra in maniera equa. Nel passato ci sono stati casi simili: il Gad Etna prese il posto della Grifone, poi lo Sport Club sostituì lo stesso Gad Etna, consentendo sempre ad una squadra di rappresentare al meglio il basket catanese e a fare da traino per le società minori.»

Come sono i rapporti con il Gad Etna?
«Ottimi, stimo molto Costantino Condorelli, appena acquisirà un po’ più di esperienza saprà meglio come muoversi. Anche il presidente della FIP provinciale Michelangelo Sangiorgio dovrebbe lavorare come collante così come ai miei tempi faceva l’ingegnere Gigi Mineo. Questo è l’obiettivo: creare una società forte. Il movimento da quando c’è il nuovo presidente è cresciuto, basti vedere quante squadre della provincia sono in C2. Per fare un’unica società ci vogliono delle basi dirigenziali, una struttura solida che vada dal presidente al magazziniere. In B2 le società sono semiprofessionistiche, con un’organizzazione importante e ogni persona fa sì che la società possa crescere. Ci sono tante esperienze di società con soldi e con grandi giocatori che mancano di organizzazione societaria e non raggiungono certi obiettivi. La mia esperienza mi dice che quando si vince si vince tutti, quando si perde è lo stesso: tutte le componenti devono funzionare e se c’è qualcosa che non va bisogna intervenire a tutti i livelli per sistemare i problemi.»

Avete pensato di unire le forze con il Gad?
«Noi siamo aperti a qualsiasi collaborazione purché si faccia il bene del basket di Catania. Sarebbe stupido non volere questo, per noi che operiamo in questo settore. Ma le cose devono essere ben fatte

Roberto Quartarone e Salvatore Maugeri